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Darcy Luzzatto: una vita per la difesa del “Talian”, il veneto-brasiliano

Darcy Loss Luzzatto è l’uomo del Talian. Quel misto di dialetto veneto, lombardo, trentino, con un po’ di portoghese “venetizzato” che si parla nella Serra Gaucha, quella regione di Caxias do Sul, Bento Gonçalves e Garibaldi, nel cuore de Rio Grande do Sul, e in certe zone di Santa Catarina. L’immigrazione italiana è giunta su quelle colline del sud brasiliano, a quel tempo coperte solamente dalla Mata Atlantica, alla fine del XIX secolo, dal 1875 in poi. L’Italia era unita solo da quattro o cinque anni, ed era una congerie di parlate distinte: ad ogni 50 chilometri della penisola si confabulava in un dialetto diverso! I coloni italiani, inviati nell’interno del Rio Grande do Sul e di Santa Catarina, venivano specialmente dalle zone alle spalle di Venezia, dalle campagne di Treviso, Padova, Belluno, dai paesi dell’alta Lombardia (Bergamo, Brescia) e dalle Alpi del Trentino. Non parlavano assolutamente italiano. In Brasile, essendosi tutti mescolati fra loro senza alcuna divisione territoriale, crearono con l’andare del tempo una vera e propria lingua comune, una koinè diálektos, un nheengatu del sud invece che del nord-amazzonico, che inglobava termini dei vari dialetti trapiantati in quella regione brasiliana, più un tocco di portoghese filtrato da quegli italici linguaggi. Così è nato il Talian, che alla fine del 2014, col Guarani e l’Asurini del Tocantins, è stato fra le prime lingue riconosciute come referenza culturale brasiliana dall’Istituto del Patrimonio Storico e Artistico Nazionale (Iphan). Questo perché esistono comuni del Rio Grande do Sul e Santa Catarina (più qualche paesino dell’Espirito Santo) nei quali il Talian è lingua praticamente co-ufficiale: ossia, ha in quei luoghi e fra quella gente la stessa importanza della lingua portoghese. Per legge, una lingua brasiliana passa a far parte dell’Inventario Nazionale della Diversità Linguistica (Indl) quando è parlata continuamente in territorio nazionale da per lo meno tre generazioni, da circa 75 anni. È il caso del Talian che alla fine è stato valorizzato come “aspetto rilevante del patrimonio culturale brasiliano”. E Darcy Loss Luzzatto ha scritto l’unico dizionario Talian-Portoghese che esista sul mercato!

“In realtà ne esiste un altro del polacco Alberto Vitor Stawinski che si intitola Dizionario Veneto-Portoghese-Italiano che però non si riferisce al Talian vero e proprio – puntualizza Darcy Luzzatto che oggi ha 82 anni – Come è nato il termine Talian? Nel 1978 mi ero riunito a Porto Alegre con i massimi esponenti di questa lingua vernacola: il frate francescano Rovílio Costa, l’architetto Júlio Posenato ed io. Cercavamo di uniformare la grafia. La pronuncia e le parole sono differenti, per esempio, da un bergamasco a un bellunese, ma nel momento di scrivere si deve scrivere alla stessa maniera. E ci chiedemmo: che nome metteremo a questa lingua? Rovílio diceva Veneto Riograndense, io parteggiavo per Veneto Brasiliano. Posenato preferiva Talian. Decidemmo che tre mesi dopo avremmo fatto una nuova riunione espressamente per il nome da dare alla nostra lingua. A Farroupilha c’era l’omaggio a padre Oscar Bertholdo, un sacerdote poeta che ha scritto ben 12 libri di poemi, e che anni dopo, nel 1991, sarebbe stato barbaramente assassinato nel corso di una rapina. Aspettavo sulla porta del comune perché ero arrivato prima. C’era solo una vecchietta con me. E allora le chiesi: nona, me capiu se ve parlo in Veneto? No caro, perdoname: forse se me parli in Talian. (nonna, mi capisci se ti parlo in Veneto? No caro, perdonami: forse solo se mi parli in Italiano). A voz do povo é a voz de Deus! Ho telefonato subito a Júlio e gli ho detto che aveva proprio ragione: che era Talian! E così è stato”. Darcy è un esperto di Talian da quando andava in giro per tutta quella vasta regione con lo zio carrettiere che lo portava con lui durante le vacanze da scuola. “Avevo 11 o 12 anni. Giravamo con un carro trainato da 8 mule. Sono andato a vagare con mio zio per anni. Nessuno come me ha una familiarità così completa con le parole e i modi di dire di tutti i discendenti dell’emigrazione italiana. Ho sfruttato queste conoscenze nel redarre il mio dizionario, che ho incominciato a scrivere a Porto Alegre, dove facevo l’editore, nel 1997. L’ho terminato solo sette anni più tardi: sono molto contento del risultato finale!”.

Darcy Luzzatto è nato a Pinto Bandeira, nel Rio Grande do Sul, il 27 ottobre 1934. A 12 anni è andato a studiare a Bento Gonçalves, e sino ai 17 a Farroupilha, che fino all’anno della sua nascita si era chiamata Nova Vicenza. Poi è arrivato a Porto Alegre dove si è laureato in matematica e fisica. Ha fatto il professore per molti anni scrivendo dei trattati di fisica. Con quei libri ha fatto irruzione nel mondo della letteratura che lo ha portato, dopo la fase di insegnamento, a diventare editore di libri scolastici per il liceo e l’università. Per quattro anni è stato editore dell’Università Federale del Rio Grande do Sul. “La mia vocazione per i libri deriva da mio nonno, Cristoforo Luzzatto. Il vecio Toffolo (il vecchio Toffolo) era una persona con studio, che sapeva parlare il bellorat (il dialetto veneto di Belluno), il francese, e che, secondo quanto diceva un vecchio prete di Pinto Bandeira, conosceva ancora più latino di lui. Parlava fluentemente l’italiano. Nessuno sapeva parlare Italiano in quegli anni. In paese c’erano sole tre persone che avevano cognizione della lingua di Dante: il vecchio Arpini, Pecoraro e Luzzatto. Tutti avevano studiato in Italia. Gli altri erano quasi tutti analfabeti e parlavano il dialetto d’origine. Mio nonno è stato molto male all’inizio vedendosi, lui colto, in mezzo a tutta questa ignoranza”. Il nonno Cristoforo è la persona che più ha influenzato Darcy nella sua vita. Era nato a Mel, un villaggio lungo il fiume Piave, in provincia di Belluno, nel 1869. Era di famiglia che stava bene, probabilmente ebrea. Avrebbe potuto fare carriera in Italia. Ma suo cognato, che aveva sposato sua sorella Marina (aveva un altro fratello di nome Bepi), lo aveva abbindolato scrivendogli cose affascinanti dal Brasile in cui era approdato qualche anno prima. Gli aveva mandato una lettera con l’assicurazione che lui, che parlava diverse lingue, avrebbe fatto soldi a palate nel Brasile di allora. Lo aveva ingannato. Lui è venuto nella Serra Gaucha pochi anni dopo, nel 1890, e subito dopo si è pentito. Ma era molto difficile tornare. E non è ritornato. “Il primo posto dove si sono fermati era Caravaggio, dove anche allora c’era il santuario della Madonna di Caravaggio, che in Italia è nei dintorni di Bergamo. Iniziò a fare il maestro, ma in Italiano. Poi venne a Pinto dove faceva lo scrivano. Gli era stato facile parlare e scrivere in portoghese: io dico sempre che chi parla una sola lingua è poco più di un muto. Con nonna Virginia hanno avuto nove figli. E quella di mia nonna è una storia ancora più incredibile!”

Lei era di Feltre, sempre vicino a Belluno, ma già in montagna. Si chiamava Virginia ma sempre si è fatta chiamare Emilia. E nessuno sa assolutamente il perché. “La sua è una storia stramba, interessantissima, da film, da telenovela…Ma molto triste. Sua madre si era sposata con un tipo che era dovuto partire subito per la guerra. Era il 1866 e infuriavano le battaglie fra l’Austria, a cui allora apparteneva il Veneto, e la Prussia. Non era più tornato. A distanza di tre anni la mia bisnonna era andata a chiedere consiglio al parroco e al sindaco. Le hanno riposto che suo marito, presumibilmente, era morto, e che facesse un po’ ciò che voleva. Allora lei si è sposata col fratello del suo primo sposo, e aveva messo al mondo una toseta (bambina), la nonna Teresa Virginia. Ma quando quella neonata aveva meno di un anno ritorna il primo marito. Qual’è il matrimonio che vale? Sono andati tutti a Belluno a parlare col prefetto e il vescovo, che alla fine hanno sentenziato che era il primo matrimonio quello che valeva. Al mio bisnonno è toccato andare via e di lui non se n’è saputo più nulla. Mia bisnonna è tornata col primo marito che ha portato subito Virginia all’orfanotrofio, l’ha messa nella roda delli esposti, l’ha lasciata con le suore. Ha vissuto così, quasi in clausura, abbandonata dalla sua famiglia, tutta la sua infanzia e adolescenza, finché non si è sposata con nonno Cristoforo. Da bambino ho chiesto a mia madre perché la nonna era sempre così cattiva. Se sapessi la sua vita saresti cattivo anche tu! è stata la sua risposta. Si è sempre fatta chiamare Emilia anche se tutti sapevano che il suo nome vero era Virginia. Chissà? Forse per cancellare qualcosa del suo passato. Un vero mistero!”.

Il nonno Cristoforo era di origini ebraiche. Darcy l’ha scoperto qualche giorno dopo la sua morte quando monsignor Luis Vitor Sartori lo ha condotto in sacrestia a Caravaggio e ha tirato fuori una lettera di proprio pugno del nonno. C’era tutta la storia della sua famiglia. I Luzzatto derivano il loro nome dalla Lusatia, che in latino indica la terra, ora divisa tra Germania e Polonia, ai confini della Cechia. Erano ebrei ed avevano cominciato a fuggire verso sud dai tempi della Peste Nera del 1348. Gli ebrei non si ammalavano come gli altri, soprattutto per le loro osservanze religiose in fatto di cibo, kosher, che proibivano di mangiare carne di porco. Chi erano i colpevoli per quell’epidemia mostruosa? Quelli che non morivano: quindi gli “odiati” ebrei! Alla fine di secoli di migrazione forzata erano approdati nel nord Italia. Qualche Luzzatto si era sposato con qualche cristiana e aveva rinnegato il credo giudaico. “A Conegliano c’è un cimitero ebraico dietro l’antico palazzo Sarcinelli. Ho chiesto se c’erano dei Luzzatto li e mi hanno indicato uno stemma sulle tombe, con un gallo che tiene con la zampa destra un fascio di frumento, e con sopra la testa una stella a cinque punte. Quelli sono Luzzatto. Era scritto tutto in sanscrito e io non capivo nulla. Ne ho trovate parecchie col medesimo simbolo. A mia zia ho rivelato la novità che siamo ebrei. Lei ha detto di smetterla con queste fandonie, che nonno Cristoforo andava a messa tutte le domeniche…Ma le ho risposto che se lui andava in chiesa, i suoi antenati erano andati in sinagoga. Amos Luzzatto, nato nel 1928 e credo ancora in vita, era un professore di Venezia che ho incontrato in uno dei miei viaggi. E’ stato presidente delle comunità ebraiche in Italia. Molti ebrei di Porto Alegre sono andati ad una conferenza che ha tenuto anni fa a Rio de Janeiro. Quando sono tornati andavano dicendo che erano andati ad ascoltare un mio parente!”.

Il padre di Darcy si chiamava Antonio ed era un figlio di mezzo di Cristoforo e Virginia/Emilia. Era nato a Caravaggio. Nella sua breve vita ha fatto di tutto: dal commerciante di cavalli e mule al salsicciaio, dal viticoltore all’albergatore. È morto a 43 anni perché a quel tempo non si sapeva quanto male facesse il metabisolfito di sodio che si attaccava come una crosta al legno delle botti di vino. “Mio padre entrava dentro alle botti senza nessuna protezione. Con uno zappettino tirava via le scagliette di metabisolfito per rivenderlo. Sono tutti morti di epatite senza sapere perché. Respiravano quella polvere e invece di mettersi una rete davanti alla bocca fumavano un sigaro, il che era peggio ancora. Mi aveva fatto una zappettina piccola e mi avrebbe portato dentro le botti senza sapere che faceva il mio male. Ma è morto prima”. Sua madre, Ester Loss, era nata a Bento Gonçalves. Loss di padre e di madre. Perché a Caoria, frazione di Canal San Bovo, nella valle trentina di Primiero da cui provengono i nonni di Darcy, si sposavano anche fra cugini. “Mi ricordo che nel 1978, quando sono andato per la prima volta in Italia, a Caoria era domenica e tutti erano nella piccola chiesetta. Ho chiesto ad un prete se in paese c’erano dei Loss. Mi ha risposto che tutti erano Loss, e se non conoscevo il nomignolo di mio nonno. Io lo sapevo: Remesor. Finiti! Il sacerdote mi ha detto che non c’erano più Remesor, come non restavano più Losset, soprannome dei Loss di mia nonna. Il nonno Loss gh’avea gli schei, era danaroso, e aveva a Bento due segherie con due mulini ad acqua. Quando sono nato abitavamo a Pinto Bandeira che a quel tempo si chiamava Nova Pompei. Qui, dove vivo di nuovo adesso, c’è il santuario della Madonna del Rosario di Pompei. Ma con l’Estado Novo, durante la dittatura Getulio Vargas, erano stati proibiti i nomi stranieri. Allora l’hanno sostituito con Pinto Bandeira. Chi era costui? Un personaggio che non ha niente a che vedere con noi. Rafael Pinto Bandeira era nel XVIII secolo un colonnello dell’esercito portoghese che faceva guerra nel sud del Brasile ogni volta che gli uruguaiani si spingevano dentro al Rio Grande do Sul. Non è mai venuto qui. Non c’entra niente con questa cittadina. Chiamiamo il nostro paese di Pinta e i pintaroi sono i suoi abitanti. Era un termine negativo che adesso è diventato positivo e ce lo godiamo. Come il vocabolo “gaucho” che in origine era sinonimo di ladro, assaltante di strada, delinquente… Ma poi, col passare del tempo, quando i gauchi hanno aiutato il governo centrale a respingere quelli che parlavano spagnolo, sono diventati rispettabili e importanti, ed oggi tutti hanno l’orgoglio di essere gauchi. Ma io dico sempre: guardate indietro!!!!”.

Darcy Luzzatto, corporatura forte ed occhi pieni di simpatia, racconta un storiella che è all’origine della sua passione per la lingua Talian. “Mi sembra di vedere tutto come allora. Mia madre nella cucina dell’albergo, mia sorella più vecchia a lavare i piatti. Mio padre era appena morto. Avevo 10 anni. Io mi occupavo di quelli che bevevano qualcosa nel ristorante e nel bar. Era il 1944. C’era gente che giocava alle carte, e tre o quattro persone in piedi attorno, che stavano a guardare. All’improvviso è entrato un bell’uomo, non molto alto ma con una corporatura forte e un piglio deciso, tutto vestito di nero, con gli stivali neri, e con una camicia bianca, senza cravatta ma con un fermaglio d’oro al collo. Si è seduto tranquillo guardandosi attorno. Era l’epoca della seconda guerra mondiale: il Brasile era contro l’Asse e parlare Talian era vietato. Si vede che le persone presenti hanno suscitato la sua completa fiducia e mi ha detto: ceo, dame un cichet de cachaça! Uno che stava assistendo al gioco è uscito di soppiatto ed è ritornato poco dopo con un commissario di polizia di nome Fernando Fernandes. L’ha preso, arrestato, cacciato fuori, e rinchiuso nella cantina del municipio che fungeva da prigione perché, in quei tempi benedetti, non era necessaria la prigione. Se lui avesse voluto spaccava a metà sia il poliziotto che la spia che era di Bergamo ed era soprannominata “Magro” per il fisico minuscolo che aveva. Ma a quel tempo c’era un altro rispetto per la legge. Lo guardavo dalla finestra dell’albergo mentre andava avanti e indietro per quella prigione fasulla. Non aveva fatto nulla. Era finito là solo perché non poteva parlare la sua lingua nella sua terra. È stata una cosa impressionante che all’inizio dell’adolescenza mi ha marcato molto. Il giorno dopo è uscito, è montato a cavallo e prima di andare via ha detto: avvertite il Magro che se passa davanti a casa mia è un uomo morto! Per 50 anni il Magro, fino a quando non è mancato, non è mai passato di là tanta era la paura che gli aveva messa addosso. Questa è la storia di come era cattivo parlare Talian a quell’epoca. Quel fatto è stato la molla originaria per farmi scrivere e per cercare di far rivivere la nostra lingua. Per me è stato l’inizio di tutto!”.

Darcy si è sposato la prima volta che era molto giovane. Dice di avere sbagliato, perché non sapevano vivere assieme. Lei era tedesca. “Ho rischiato di diventare un alcolizzato. Quando sei in crisi non sai con chi parlare, non stai bene: e alora t’inciuchi (e allora ti ubriachi). Poi per fortuna è venuta Elisa che ha ridato sapore alla mia vita. Abbiamo due figli, Antonio, giornalista, e Carolina che è andata a studiare in Germania dove si è sposata. Ho due nipotini: Maximilian e Carlota, uno suona la tromba e lei il trombone a coulisse”. I due nipoti tedeschi di Darcy hanno imparato a leggere e a scrivere prima il Frankische, il dialetto tedesco della regione in cui vivono, del “Deutch”, come i cimbri e i ladini che ora apprendono prima la loro lingua dell’Italiano. Secondo Luzzatto così dovrebbe essere anche qui, su queste magnifiche colline brasiliane di selve e vigneti. Durante le celebrazioni dei 100 anni dell’emigrazione italiana, nel 1975, l’allora vice-direttore dell’Università di Caxias, Mario Gardelin, gli ha detto: Luzzatto, tu parli bene il Talian, dovresti anche scriverlo. “Quando sono ritornato a casa l’ho detto a Elisa e mi sono messo a pensare. Da qui è nato il primo libro in Talian e da allora non mi sono più fermato. Se tornassimo a 50 anni fa, tutti parlavano Talian. Tutti, proprio tutti! Le professoresse brasiliane esigevano il Portoghese e dicevano che il nostro palare era da stupidi e da ignoranti. I vecchi non ci avevano mai parlato dell’Italia. Noi non sapevamo dell’importanza di Venezia nel mondo, una città fantastica con una storia eccezionale! Se l’avessimo saputo potevamo rispondere a quelle professoresse che quando il Portogallo non esisteva ancora, che non c’era nessuna lingua portoghese, a Venezia parlavamo già il Veneziano, e si parlava Veneziano lungo tutto l’Adriatico, nelle isole del Mediterraneo orientale, fin nel Mar Nero. Ma non ci avevano mai detto nulla di tutto questo: anche mio nonno che era una persona colta ed intelligente”.

Frate Rovílio Costa, un santo secondo Luzzatto, soleva dire che “tute le lengue xè bele, ma la più bela de tutte xè quel ca g’avemo ciuccià ne tette da mama!” (tutte le lingue sono belle, ma la più bella di tutte è quella che abbiamo succhiato dai seni della mamma). La lingua materna è quella del sentimento. “La rabbia e le carezze vengono fuori sempre in Talian – conclude Luzzatto, preparando una fortaia (frittata) squisita nella sua casa di Pinto Bandeira – La lingua è dentro di noi e si manifesta senza volere. Non riesco proprio a scrivere delle poesie in portoghese. In Talian invece… Una volta ero a Murano, l’isola del vetro nella laguna di Venezia. Un soffiatore che mi ha sentito parlare mi ha detto che grosso modo mi capiva, anche se parlavo una mescola di parole trentine, bellunesi, trevigiane, e altre che non riusciva a comprendere. Ma sei di Trieste? mi ha chiesto alla fine. Non capirai mai da dove vengo, gli ho risposto. No, non sono friulano, trentino, altoatesino, lombardo, o di qualche zona sperduta del Veneto. Sono del Rio Grande do Sul, in Brasile, una landa a più di 12 ore d’aereo da qui, dove il Veneto che si chiama Talian, dopo anni di sofferte persecuzioni, ora è diventato un lingua ufficiale brasiliana: è considerato più che in Italia!”

Fonte: http://100nonni.com


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