Storia

Napoleone e la Serenissima

Quando nel 1797 Napoleone Bonaparte penetrò nel nord della penisola italiana all’inseguimento delle truppe austriache in ritirata, Venezia si mantenne neutrale. Tuttavia, capìta la debolezza del ricco, florido, ma militarmente debole ospite, egli pensò di impadronirsi delle ricchezze dei Veneti accumulate nel corso dei secoli e di fare dello stato veneziano merce di scambio con gli Austriaci. Si inventò quindi di sana pianta un “casus belli” per imporre la fine del legittimo governo veneto ed istituire uno stato fantoccio, premessa della fine della millenaria Repubblica Serenissima anche come Stato, non solo come istituzione.
Nel marzo di quell’anno il Maggior Consiglio per risparmiare la popolazione accettò le dure condizioni di Napoleone, ignorando che già in aprile a Leoben, in Stiria, la Francia aveva concordato in gran segreto con l’Austria la cessione dei territori veneti.
Sotto le pressioni ormai insostenibile dell'”Attila” Napoleone (così si autodefinì il generale Corso nei confronti della Repubblica Veneta) e per opera di giacobini e collaborazionisti francesi che incitavano la popolazione a rivoltarsi contro la Repubblica Veneta (invano, poiché le municipalità che presero il potere nelle città dell’entroterra lo fecero solo grazie alle baionette francesi e alla non resistenza delle armate venete), il Maggior Consiglio abdicò i suoi poteri con la famosa votazione del 12 maggio 1797, “el xorno tremendo”, per far posto ad un governo filo-francese, chiamato “Municipalità provvisoria“. Questa nuova forma di governo durò pochi mesi, durante i quali per ordine di Bonaparte vennero abbattute le statue con il leone alato di San Marco, storico simbolo dello Stato veneto, e si arrivò perfino a fucilare quelli che gridavano “Viva San Marco!”.
Naturalmente il territorio subì un saccheggio terribile e i veneti furono costretti a vendere persino i panni che indossavano o le fibbie d’argento delle scarpe per far fronte a una tassazione feroce da parte dei francesi.

“Il Secolo XIX ha svuotato Venezia. Le generazioni che l’hanno abitata o visitata nella seconda metà del Settecento hanno visto ciò che gli uomini non vedranno mai più: una massa, una moltiplicazione, un crescendo di splendori inimmaginabili.
Chiese, conventi, palazzi, si addensavano, si stringevano gli uni agli altri, si contendevano il sole nelle vie e nelle strette piazze della città… Dovunque, la grandiosità massiccia delle costruzioni, l’opulenza dei marmi rari, degli ori, degli argenti, la sontuosa bellezza… si univano alla leggerezza, alla proporzione, alla grazia, all’eleganza, allo slancio delle linee e degli ornamenti, ai capricci e alle invenzioni della fantasia, alla bellezza aerea che soltanto lo spirito può cogliere…”.
La Venezia sul cui suolo le truppe del generale Baraguay d’Hilliers mettevano piede (la prima armata straniera nella sua storia) il 15 Maggio 1797, tre giorni dopo l’abdicazione del Maggior Consiglio, la stessa sera in cui l’ultimo Doge lasciava silenziosamente il deserto Palazzo Ducale, era un gioiello di splendezza solare su cui calava un fatale eclisse.
Nessuna guerra l’aveva mai toccata: né gli Unni, né i Franchi di re Pipino, né i Genovesi, né gli Stati Europei confederati nella Lega di Cambrai erano mai riuscitia violare la ben custodita distesa delle lagune. Gli incendi erano stati numerosi, specie nei primi secoli, e ancora verso la fine del Cinquecento il fuoco aveva devastato il Palazzo Ducale, ma il danno che avevano potuto procurare era stato ben poca cosa, di fronte all’ininterrotto accumularsi di ricchezze che aveva fatto di Venezia, nei suoi secoli d’oro, il forziere d’Europa.

Alvise Zorzi, Venezia scomparsa

La fine della Repubblica gloriosa sembrava impossibile a tutti. Il popolo in particolar modo dapprima impugnò le armi contro gli invasori (famoso resta l’esempio delle “Pasque Veronesi”) e poi manifestò in ogni forma il suo cordoglio: celebre è l’episodio di Perasto, cittadina sulle bocche di Cattaro, oggi nel Montenegro, che fin dai tempi antichi custodiva la bandiera dell’ammiraglia della flotta da guerra veneziana. Per secoli era rimasta in vigore l’usanza secondo cui dodici gonfalonieri perastini erano designati a difenderla, fino al prezzo della vita, come accadde a Lepanto, sul ponte della nave.

Convegno “Napoleone Bonaparte e il Veneto” – relatore: avv. Lorenzo Fogliata

Quando nell’agosto 1797 il barone Rukovina volle prendere possesso della cittadina a nome dell’imperatore d’Austria, i perastini chiesero gli onori solenni alla bandiera veneta, e la seppellirono sotto l’altare della chiesa, dopo averla baciata tutti e bagnata di lacrime. Era il 27 agosto 1797 quando il “Capitan de le Guardie” Giuseppe Viscovich seppellì sotto l’altar maggiore del Duomo la bandiera veneta, pronunciando un discorso di grande amor patrio:

lallich-il-bacio-di-perasto-450-jpgPERASTO: il saluto in lacrime alla Bandiera Veneta

27 agosto 1797

Discorso pronunciato a Perasto – oggi importante città dello Stato del Montenegro – dal “Capitan de le Guardie” Giuseppe Viscovich il 27 agosto 1797, quando dovette sepellire, assieme all’intera popolazione in lacrime, il Gonfalone di San Marco, riponendolo momentaneamente sotto l’altar maggiore della del Duomo in attesa del ritorno dell’amata Repubblica:

“In sto amaro momento, in sto ultimo sfogo de amor,
de fede al Veneto Serenisimo Dominio, al Gonfalon de la Serenisima Republica,
ne sia el conforto, o citadini, che la nostra condota pasada,
e de sti ultimi tenpi, rende non solo più giusto sto ato fatal,
ma virtuoxo, ma doveroxo par nu.
Savarà da nu i nostri fioi, e la storia de el zorno
farà saver a tuta l’Europa, che Perasto la gà degnamente sostenudo fin a l’ultimo
l’onor de el Veneto Gonfalon, onorandolo co sto ato solene,
e deponendolo bagnà de ‘l nostro universal amaro pianto.
Sfoghemose, citadini, sfoghemose pur, e co sti nostri ultimi sentimenti
sigilemo la nostra cariera corsa soto al Serenisimo Veneto Governo,
rivolgemose a sta Insegna che lo rapresenta, e su de ela sfoghemo el nostro dolor.
Par trexentosetantasete ani le nostre sostanse, el nostro sangue,
le nostre vite le xè sempre stàe par Ti, S.Marco;
e fedelisimi senpre se gavemo reputà, Ti co nu, nu co Ti,
e senpre co Ti sul mar semo stài lustri e virtuoxi.
Nisun co ti ne gà visto scanpar, nisun co Ti ne gà visto vinti e spauroxi!
E se i tenpi presenti, tanto infelisi par inprevidensa, par disension,
par arbitrii ilegali, par vizi ofendenti la natura e el gius de le xenti,
non Te gavese cavà via, par Ti in perpetuo sarave stàe le nostre sostanse,
el nostro sangue, la vita nostra.
E piutosto che védarTe vinto e desonorà da i tói, el coragio nostro,
la nostra fede se averave sepelìo soto de Ti.
Ma xa che altro no ne resta da far par Ti,
el nostro cor sia l’onoradisima tó tonba,
e el più duro e el più grando elogio le nostre làgreme.”


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Il Congresso di Vienna e i Veneti


Con il Congresso di Vienna nel 1815 la Veneta Repubblica fu l’unico Stato di grandi dimensioni – travolto da vent’anni di guerre – a non essere restaurato perché l’Austria se ne appropriò. La perdita dell’indipendenza segnò per i Veneti l’inizio di una discesa terribile, fatta di stenti, fame e miseria, condizione che si trascinò fino agli anni ’50, costringendo metà della popolazione ad emigrare in tutto il mondo.


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