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Pavano, ossia il dialetto del caos

Tra ’400 e ’600 una galassia culturale unica nel suo genere
Doppi sensi, ambientazioni contadine, immagini surreali: Paccagnella pubblica il vocabolario della lingua di Ruzante.

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Pare impossibile che generazioni di studiosi continuino a occuparsi assiduamente di autori della nostra letteratura che non pongono alcuna particolare difficoltà di comprensione della lettera del testo (la prima e indispensabile chiave d’accesso a qualsiasi opera letteraria) né alcun particolare sforzo di ricostruzione storica, riducendosi a semplici palestre di elucubrazione per disimpegnati stilisti. Pare impossibile soprattutto pensando che nel bel mezzo della nostra storia culturale vi è almeno un poderoso filone letterario che al vario pregio artistico dei suoi prodotti accompagna una straordinaria sfida linguistica. Parliamo della letteratura pavana: un capitolo a lungo pigramente relegato ai margini, che ha prodotto con Ruzante almeno un colosso della letteratura europea, e con la miriade dei suoi anticipatori e seguaci, tra Quattro e Seicento, una galassia culturale unica nel suo genere.

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La letteratura pavana è tutta imperniata sull’impiego di una varietà linguistica che arieggia il padovano rustico, ma si discosta dalla sua realtà storica per sovraccaricarlo espressivamente: un faelare di villani e di contadine, prodotto però da autori tutt’altro che demotici, che giocano con la lingua come i grandi pittori del Rinascimento veneto giocavano col colore.

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Producendo capolavori: come i teleri delle commedie, dei dialoghi e dei monologhi ruzantiani; come i quadri venezian-padovani di un Andrea Calmo, o la vertiginosa serie dei bozzetti poetici allineati dalla triade Magagnò, Menon e Begotto nelle loro raccolte di rime. Una lingua caotica, che mette a dura prova anche i lettori più esperti (tanto che di solito le edizioni di questi testi rivolte al pubblico si presentano con traduzione a fronte o a margine); ma anche, finalmente, una lingua disvelata fin nelle sue pieghe, grazie al Vocabolario del Pavano che Ivano Paccagnella ha appena pubblicato, per i tipi (padovani, ovviamente) di Esedra.

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Mille pagine per esplorare, parola per parola, tutto l’immenso tesoro della lingua di Ruzante, dei pre-ruzantiani (soprattutto quattrocenteschi) e dei post-ruzantiani, fino al misterioso autore di un Dialogo che in passato fu attribuito nientemeno che a Galileo Galilei, professore allo Studio di Padova. Mille pagine, migliaia di termini su ciascuno dei quali Paccagnella – professore allo stesso ateneo patavino, e allievo di Gianfranco Folena, che un’impresa simile compì sul veneziano di Carlo Goldoni – ha sudato per vent’anni. Tanto ci è voluto per riuscire ad avere edizioni attendibili (sia pur di servizio) del corpus dei testi pavani, ma soprattutto per cercar di spiegarne chiaramente ogni singolo termine ed espressione. Ogni proverbio, ogni irriverente allusione, ogni turpe doppio senso. Di lasciarli nel vago è capace qualsiasi saltimbanco: ma il difficile è inchiodarli, su una pagina di dizionario, a un preciso significato. O almeno formulare un’ipotesi plausibile sul loro significato e sul motivo per cui sono stati impiegati. Giacché, per citare ancora Galileo, «parlare oscuramente lo sa fare ognuno, ma chiaro pochissimi».

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E l’intenzione di Ruzante non era certo quella di non farsi capire: solo che il suo pubblico viveva in un ambiente culturale naturale e insomma in un tempo ormai irrimediabilmente separato dal nostro, del quale si può però tentare di ricostruire luoghi, suoni, piante, animali, abiti, concetti che non fanno più parte delle nostre abitudini. Proprio come nel Vocabolario del veneziano di Carlo Goldoni, con cui Folena vent’anni fa aveva dischiuso il mondo del commediografo veneziano, basta atterrare su un verbo qualsiasi, anche il più familiare – che so, andare – per scoprire modi di dire, e con essi, nozioni antiche, che credevamo di aver dimenticato: andare a mario (a marito), ma prima (sperabilmente solo prima) andare a morose, andar drio (nel senso di «continuare»), andar in bando (per «esser banditi»), andar al bordello o ai bordiegi (nel senso di «in malora»), ma anche andare a ponaro (letteralmente «al pollaio»: significa «a dormire») o andar a versoro (andar nei campi spingendo l’aratro), andar int’un acqua («sciogliersi») o andar in broetto («sdilinquirsi», andare in brodo), fino ad un andare in gluoria che per i villani ha il significato terra- terra di «godere»: «co’ butto gi uocchi in te ’l to sen / a’ vago in gluoria secoloro, amen».

Lorenzo Tomassin


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